“E-Review” è una rivista on line di storia contemporanea, realizzata dagli Istituti Storici dell’Emilia Romagna in Rete e patrocinata dalla Regione Emilia Romagna.
Sorto per iniziativa degli Istituti storici della Resistenza, in collaborazione con l’ente regionale, il progetto è volto allo sviluppo dell’attività culturale per lo studio del passato e la trasmissione della memoria storica. La rivista intende rivolgersi a un pubblico nazionale e internazionale di studiosi, insegnanti, cultori e appassionati della materia, con l’obiettivo di aprire un canale di comunicazione storiografica che superi i confini accademici e favorisca la costruzione di un dialogo con la società. La stessa scelta di pubblicare in formato digitale risponde a tale proposito, nella convinzione che il web offra considerevoli vantaggi sia per quanto riguarda la diffusione e la fruibilità della rivista, sia per la possibilità di proporre contenuti multimediali oltre che testuali.
Il progetto culturale di “E-Review” è caratterizzato da alcune specificità:
- sul piano temporale, pone attenzione alla storia contemporanea nel suo complesso, ma con particolare riferimento alla Seconda guerra mondiale, alle trasformazioni degli anni Sessanta e alla fase di transizione tra il XX e il XXI secolo;
- sul piano spaziale, l’Emilia Romagna rappresenta un punto di vista focale per analizzare fenomeni storici che hanno però valenza su scala nazionale o internazionale;
- sul piano tematico, abbina un taglio interdisciplinare, favorito da specifiche competenze nei campi della geografia, dell’antropologia e della scienza delle comunicazioni, a un interesse trasversale all’intera filiera del lavoro storico (dalla documentazione alla ricerca e alla divulgazione).
La rivista prevede un dossier monografico di periodicità annuale (composto da saggi peer reviewed, commenti, testimonianze, contributi cartografici e multimediali) e una serie di rubriche fisse:
- #formazione: si occupa di esperienze, pratiche, progetti e problematiche relative a tutti gli aspetti della didattica della storia contemporanea, riservando particolare attenzione all’utilizzo delle nuove tecnologie;
- #patrimonio: è finalizzata a valorizzare l’intero patrimonio archivistico e documentario collegato alla storia della regione (compresi materiali museali, fonti iconografiche, luoghi della memoria ecc.), privilegiando come soggetti conservatori gli istituti appartenenti alla rete;
- #usopubblico: si focalizza sul rapporto tra ricerca storica e dimensione pubblica, in un’accezione non solo negativa, ma correlata anche al concetto di Public History;
- #corrispondenze: include brevi segnalazioni su iniziative culturali (pubblicazioni cartecee e multimediali, convegni, siti web, audiovisivi ecc.) inerenti la storia contemporanea, sviluppatesi in ambito regionale.
E-Review.it è un periodico pubblicato con il contributo della Regione Emilia Romagna e registrato presso il Tribunale di Bologna, autorizzazione n.8299 del 27/5/2013.
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Rifondazione storiografica libera ed interdisciplinare, contro gli apriorismi, contro il giustificazionismo, contro la kripteria italiana
La Scialuppa di Benito
10 AGOSTO di Giovani Pascoli (1896)
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero; cadde tra spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido,
l’uccisero, disse “Perdono”
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano invano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
I
Dai tempi della rottura con il Psi, Mussolini aveva coltivato un bisogno-sogno: regalarsi un rifugio segreto. Non una base operativa appartata che si riconnettesse al suo mestiere di politico, ma un buco dove, volendo, poteva scomparire.
Raggiunto il primo benessere economico (l’acquisizione del “Popolo d’Italia”), il capo dei Fasci di Combattimento, uomo quasi ascetico nella sua fossilizzazione sulla lotta per il potere, si regalò la realizzazione del sogno.
Procedette in solitudine assoluta, girando tutta Milano sino a scegliere una zona alquanto desolata che (ironia della sorte!) non era lontana da un piazzale intitolato a Loreto.
Infine, scelse un locale quasi invisibile, stanza e bagno, all’interno di un vasto stabile rimasto in abbandono da quando, anni prima, il proprietario si era sparato in bocca, lasciando tutto a degli eredi divisi più da odio ancestrale che da rivalità di denaro (il denaro è sempre pretesto-strumento; fondamentali sono le pulsioni).
Nell’edificio conteso si andò infiltrando di tutto: topi, gatti, ragni, scarafaggi, muffe, acque. Solo l’ufficio di Benito si manteneva abbastanza integro grazie ai lavori di una piccola impresa di pulizie pagata dalla ditta Dal Fabbro Alessandro.
II
Di particolare gradimento per il fascista fu l’acquistare arredo presso rigatterie dove andava travestito da travet povero: un cappello con la tesa piegata verso gli occhi, un trance dai baveri lunghi che quando venivano rialzati coprivano tutta la parte bassa del viso.
Così conciato, provava sensazioni zuccherine nello scegliere tra miserabili mobilie così simili a quelle delle sue abitazioni di prima, degli anni della povertà, quando qualche volta neppure mangiava, sfogandosi con il violino ad irridere il diavolo e la miseria che di si illudevano di umiliarlo.
Dopo avere completato il locale, evitò di andarci.
L’ultima azione fu l’apposizione di una targa di metallo povero con la scritta “Ditta Dal Fabbro Alessandro”.
In quel momento, nel momento dell’abbandono, concepì il nome di quella parte di sé: La Scialuppa.
Un nome che si portò a Roma, dove gli si abbarbicò nei meandri dell’anima, forse a compensare il senso di vertigine che ogni tanto lo insidiava, dopo un’ascesa tanto prodigiosa che lo aveva portato sino ad un potere sempre più simile ad un culto religioso.
La sua mentalità di paesano provava brividi di una vertigine superstiziosa davanti alla onnipotenza della vetta gerarchica. Ma il Duce era anche un romagnolo di stirpe proterva che alle sbandate degli sgomenti reagiva sfidando e attaccando.
III
Ad un unico uomo rd in una sola occasione “sua Eccellenza” Benito Mussolini ebbe la tentazione di confidare il segreto milanese.
Accadde in un parco-giardino, dentro una piazzola invasa da siepi fiorite e da un riverbero dei suoni e delle risate di un ricevimento d’ambasciata.
Il dittatore e Luigi Pirandello, ognuno per propria iniziativa, avevano commesso la stessa monelleria: appartarsi, sentire e vedere da lontano.
Il siciliano, arrivato per primo, si era tolto le scarpe, mostrava piedini magri rivestiti da calze quasi femminili. Con l’indifferenza sprezzante dei vecchi di successo, non badò all’arrivo del Duce.
Questi gli fece osservare:
– Mi meraviglio di vederla così defilato e trasgressivo, maestro. “Quando si è qualcuno”, lei mi ha insegnato, le trasgressioni diventano una sorta di delitto contro se stessi. –
Pirandello si esibì in una delle sue pose mefistofeliche, cui il viso triangolare si prestava magnificamente:
– Lei dice, Eccellenza? –
– In fondo è dell’immagine pubblica dei suoi cittadini migliori che vive una Nazione! –
– Se lo dice lei! Ma, mio caro Benito Emme, sappia che la stessa esistenza è già un delitto contro noi stessi! –
Invece di irritarsi, Mussolini fu colto da un impulso a confessare, ad adottare come proprio padre il padre del “Fu Mattia Pascal”. E a questa autorità cercò di chiedere il motivo per cui esistevano degli uomini attratti dall’idea di poter osservare il proprio mondo dopo la propria morte.
– Verifica degli affetti? Essere almeno una volta nello stesso tempo uno e nessuno, magari liberandosi dei centomila? Lei parla di “noi stessi” dopo avere disintegrato l’individuo! A volte io mi sento attratto, risucchiato da queste dimensioni così vaste e vaghe, dove il mio ego insonne sembra trovare un po’ di quiete… –
Come tutti i narcisi, Pirandello ignorò l’apertura di intimità che il Duce gli stava proponendo: sui grandi temi il filosofo teatrale preferiva discettare con la sola compagnia della penna e della carta. Quindi si rinfilò le scarpe e se ne andò.
IV
Nel momento in cui il Re lo faceva arrestare, il pensiero del Duce riandò alla “scialuppa” milanese.
Quella stravagante stella polare rimase a brillare durante tutto il periodo della detenzione e della pseudo-liberazione (asfissiante, con il despota esautorato che combatteva la noia individuando le diverse forze cortigiane che gli giravano attorno. Questa passività contemplativa si trasformava in ulcera e misantropia: <>.
V
Le circostanze della Storia lo ricondussero a Milano.
Sempre colpito dal ruolo che il fato giocava su di lui, Mussolini si persuase di un imminente ritorno anche nel buco-scialuppa. Ma, capricciosamente, ritenne che l’evento non andava provocato: si sarebbe manifestato da solo, confermando nel dittatore l’idea di avere un proprio personale rapporto con il fato.
Tuttavia, quando il ritorno “spontaneo” a La Scialuppa si rivelò impossibile, Mussolini si decise a produrlo.
VI
Gli ostacoli da aggirare erano molteplici perché molteplici erano i soggetti operanti. Questa condizione scatenò nel dittatore la solita avversione proterva verso i suoi servi padroni: <>.
Pur tra questi rigurgiti biliosi, Mussolini si asteneva dal bruciare l’ultima carta con una mossa intempestiva. Tuttavia la storia incalzava e le informazioni presero a convergere: dovunque gli spazi controllati dalla RSI andavano restringendosi attorno alle città e alle pianure, mentre i tedeschi si preparavano a ritrarsi verso Settentrione cercando di non venire intrappolati dalle montagne piene di partigiani.
Tutto lasciava trapelare l’imminenza dell’invasione delle città: inizialmente la scadenza era genericamente la primavera, andò convergendo sull’ultima decade di aprile.
VII
La svolta arrivò da un episodio che presso Mussolini divenne un’apparizione profetica: da un baule che stava per divenire legno da ardere scivolarono fuori proprio il trance e il cappello usati a suo tempo dal Duce per le ricerche delle suppellettili de’ La scialuppa.
Mussolini arraffò quella roba e la nascose insieme ad una pistola dentro la valigia a soffietto dei traffici diplomatici.
Improvvisò allora un amorazzo con una delle tante ausiliarie di medio rango, sposata con un funzionario ministeriale e adibita a lavori occasionali da dattilografa e segretaria.
Il dittatore non perse tempo e concentrazione a guardare con qualche attenzione quella donna pretesto: si limitò a battute e complimenti banali, le mise le mani addosso, mentre lei subito si mise con il ventre e il petto contro il piano della scrivania, impaziente di farsi montare da dietro.
Quando l’amorazzo venne sussurrato negli uffici, i cortigiani fecero a gara per fornire al Duce una protezione per le “ore d’aria” con la fedifraga.
Ovviamente, anche la gara di ruffianeria fu vinta dalle SS che confezionarono un accompagnamento destinato agli appuntamenti galanti così composto: una Mercedes Cabriolet con un autista e la grassa interprete Magda; una Mercedes più piccola, con un secondo autista e e due ufficiali.
Dunque, Benito si trovò da solo accanto ad un autista, ovviamente impegnato a fare l’autista, e ad una tedescona alquanto goffa e per di più ingabbiata dalla divisa.
VIII
Gridò, bestemmiando.
Alle sue spalle, nel sedile posteriore, Magda gli chiese che problemi avesse.
Mussolini rispose con villania:
– Maledizione! Devo pisciare! E’ un’ora che lo ripeto! –
L’autista frenò, poi arrestò l’auto, spiegando a Magda che gli chiedeva:
– Watercloset, toilette! –
E puntò un indice verso la patta dei pantaloni.
La tedesca, sopraccigli stretti, lo rassicurò:
– Ho compreso. –
E aggiunse:
– Quando? –
– Adesso. –
– Adesso? Dove? –
Mussolini scese e se ne andò di corsa, con in mano la borsa a soffietto.
I quattro tedeschi non gli corsero appresso, divertiti dal trotterellare di quel vecchio sedere.
L’autista ridacchiò, disse qualcosa come “vorsteherdrüse”.
Magda fece segno alle due SS della scorta: tutto tranquillo.
Ma il duce, dopo essere sparito dentro un bar-caffè, non tornava più fuori.
Una delle due SS ripercorse il tragitto del dittatore fin dentro il bar-caffè, una sala rettangolare, con l’ingresso in uno dei lati corti.
L’uscita di servizio era nell’altro lato corto.
In mezzo nessuno.
La SS chiese all’uomo del bancone se avesse visto un anziano con una valigia a soffietto.
L’uomo del bancone, brizzolato e con la divisa consunta, chiese:
– Mussolini? –
– Ja. Sua Eccellenza. Nel cesso? –
– Non credo. La chiave è ancora qui. –
IX
Benito Mussolini finalmente solo.
Aveva alzato il bavero del trance e si era calcato il cappello fino alle sopracciglia. Niente più borsa a soffietto e la pistola ficcata nella tasca dei pantaloni.
Andava veloce, per strade deserte.
L’antico sovversivo che era in lui gli fece prendere vie piccole, traverse, difficili da percorrere per le due Mercedes.
Tutto filò veloce sino all’ingresso dello stabile disabitato, pregno di odori atroci.
Il Duce non era uomo sofisticato e pensò solo alla serratura del portone che in effetti girò senza intoppi. Come fece, dopo un paio di rampe di scale dai gradini rotti, anche l’altra serratura, quella sotto la targa della ditta Dal Fabbro Alessandro.
X
Un interno illuminato da una finestra con le imposte interne e le persiane spalancate. Perché spalancate?
Segni della presenza di qualcuno: tazza con avanzi di caffè, un libro sgualcito. Mussolini non si tolse il cappello e non abbassò i baveri. Tirò fuori la pistola e la impugnò con il braccio teso in avanti.
La porta del cesso: un ostacolo di legno cattivo.
Un calcio forte la fece volare dentro al bagno, rivelando un uomo con le mani alzate.
Mussolini non sparò: prima voleva sapere.
L’uomo era anziano e rassicurante: vestaglia di velluto dello stesso colore delle pantofole; un pizzo bianco-grigio curato; la fronte altissima, i capelli all’indietro, lunghi e ondulati.
Non era sano: troppo bianca la carnagione, tremanti mani e dita, occhi cerchiati, un bubbone ciliegia nel collo.
Mussolini, voce bassa minacciosa:
– Cosa ci fai nel mio ufficio? –
L’uomo, bamboleggiando:
– Dunque voi siete… –
Mussolini, sarcasmo da impunito:
– Mussolini. Il Duce. –
– L’attendevo, signor Mussolini. Le devo comunicare che questo ufficio è sorvegliato, per la sua stessa sicurezza. –
– Vedo. Sei pagato dagli italiani o dai tedeschi? –
– Dai tedeschi. Ma, la prego, spostiamoci da questo posto e mettiamoci seduti nell’ufficio. Posso offrirle un caffè, roba ottima. –
Mussolini annuì vacuamente. Nell’ufficio scelse di sedersi su una sedia e si mise la pistola tra le cosce, borbottando:
– Dunque, anche questa illusoria libertà è finita; forse non è mai esistita. Ma una via ancora ce l’ho. La libertà degli antichi aristocratici romani. Un aristocratico poteva usare la morte per segnare il confine del potere imperiale. –
– Invece, un imperatore che si uccide a causa della sconfitta è soltanto un vigliacco che fugge. –
L’uomo con il pizzo bianco e i capelli lunghi aveva detto con enfasi da attore questa frase che poco gli si addiceva.
Mussolini, rilassato e persino curioso:
– Tu chi sei? –
– Cavaliere Clemente Gambara. Di professione sono stato e sarei un attore. Purtroppo, a un certo punto, non sono più riuscito a lavorare. La polizia ha cominciato a prendermi di mira. –
– Quale polizia? –
– Prima quella italiana, poi quella tedesca. Non che abbia fatto qualcosa di male. Mi hanno accusato del mio stesso esistere: ebreo, omosessuale, drogato, amici stranieri, spettacoli osceni. E adesso per vivere faccio cose strane. –
– Come questa. –
Mussolini non provava ripugnanza. Eppure aveva davanti l’incarnazione di quanto il fascismo aveva più radicalmente combattuto.
Così, preso atto del proprio cedimento, si alzò e prima di sparire diede un consiglio:
– Nei prossimi giorni le conviene stare molto nascosto. Come avrà capito, qui sta per cadere tutto. Accadrà presto e di colpo. –
– E lei? –
– Ho provato a sparire nel mio buco ma non ci sono riuscito. E’ l’ora dei fischi e devo presentarmi io a prendermeli. E’ giusto così, quando la recita è stata cattiva. Del resto, quando lo spettacolo andava bene, ero io che mi prendevo gli applausi. –
Aggiunse una smorfia. Forse voleva essere un sorriso ma Mussolini, come anni dopo avrebbe ricordato Zangrandi, non sapeva sorridere.
Da Il sentiero dei nidi di ragno, di Italo Calvino” (1947), capitolo X:
Il falchetto comincia a starnazzare dalle travi del tetto, a battere le ali tarpate come in un attacco di disperazione.
– Babeuf, devo dare da mangiare a Babeuf! – fa Mancino e corre a prendere il sacchetto con le interiora da dare al volatile. Allora tutti gli uomini si rivoltano contro di lui e contro la bestia, sembra che vogliano riversare tutto il loro rancore contro qualcosa di determinato.
– Morissi tu e il tuo falchetto! Uccellaio del malaugurio! Tutte le volte che canta succede un disastro! Tiragli il collo!
Mancino è di fronte a loro, con il falchetto aggrappato a una spalla per gli artigli, e lo imbecca di pezzi di carne e guarda i compagni con odio:
– Il falchetto è mio e voi non ci avete nulla da dire, e se voglio me lo porto dietro in azione, va bene? –
– Tiragli il collo, – grida Zena il Lungo, detto Berretta di Legno – Non è tempo di pensare ai falchetti! Tiragli il collo o glielo tiriamo noi! –
E fa per acchiapparlo. Gli arriva una beccata sul dorso della mano da fargli uscire il sangue. Il falchetto drizza le penne, apre le ali e non la smette di gridare roteando gli occhi gialli.
– Vedi? Vedi? Ci ho gusto! – dice il cuoco. Tutti gli uomini sono attorno a lui, con barbe d’ira, a pugni alzati.
– – Fallo star zitto! Fallo star zitto! Porta sfortuna! Ci chiama i tedeschi addosso!
Zena il Lungo detto Berretta di Legno si succhia il sangue della mano ferita.
– Ammazzatelo! – fa.
Duca, col mitragliatore in spalla, ha levato la pistola dalla cintola.
– Io gli spari! Io gli spari! – mugola.
– Il falchetto non accenna a chetarsi, anzi, dà sempre più in ismanie.
– Alé. – si decide Mancino. Alé, guardate cosa gli faccio. Alé, l’avete voluto voi.
L’ha preso per il collo con due mani e tira, tenendolo a testa verso terra, tra le sue ginocchia. Gli uomini sono tutti zitti.
– Alé. Adesso siete tutti contenti. Alé. –
Il falchetto non si muove più, ormai, le ali tarpate pendono aperte, le penne irte si abbandonano. Mancino lo butta su un roveto, e Babeuf rimane appeso per le ali. A testa in giù. Ha ancora un tremito, poi muore. >>
potrebbe essere utile. Prima o poi