L’uso pubblico della storia, dritto “fino al cuore della rivolta”
di Chiara Nencioni
Popolarmente si dice “memoria da elefante” per indicare una memoria prodigiosa, ma una sovraesposizione di memoria, un uso eccessivo e poco consono di essa, può avere risvolti negativi.
E proprio di questa “elefantiasi della memoria” hanno dibattuto il Professor Paolo Pezzino, Presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri – Rete degli istituti della Resistenza e dell’età contemporanea – e Davide Conti, consulente dell’archivio storico del Senato della Repubblica, della Procura di Bologna e di Brescia.
Il dibattito sul calendario civile e l’uso pubblico della storia ha inaugurato la XVIII edizione del Festival della Resistenza “Fino al cuore della rivolta”, che si è tenuto dal 5 al 15 agosto a Fosdinovo.
“Calendario civile: di solito si dà a questo termine una valenza negativa, invece è importante perché non esiste uno Stato che non si poggi su una commemorazione di eventi, che sono appunto il calendario civile, che celebra ed esalta e mobilita i cittadini sui valori dello stato-nazione” esordisce Pezzino.
Per l’Italia le date essenziali sono due: il 25 aprile, fondativo per i valori che hanno prevalso in una lunga guerra civile contro il fascismo, e il 2 giugno, la Festa della Repubblica.
“Sarebbe grave se non si celebrassero tali feste – continua Pezzino – così come è stato grave che Berlusconi non abbia mai festeggiato il 25 aprile se non quando andò a Onna dopo il terremoto. Purtroppo sempre di più ci troviamo davanti a una tendenza a regolamentare per norma di legge la ricostruzione del passato storico, più o meno recente. Quello che è un tempo si definiva ‘uso pubblico della storia’ oggi assume la veste di politiche della memoria che se vuole condivise, ma realtà sono imposte in nome di un presunto universalismo dei diritti umani.
Assistiamo a un proliferare di date ed eventi, sia “universali”, ad esempio la Giornata della Memoria (come simbolo del “genocidio perfetto”), o italiani, come la Giornata del Ricordo, che celebra la morte di alcune migliaia di italiani sul nostro confine orientale.
“Il testo di legge avrebbe dovuto parlare di confine italo-jugoslavo, non ‘orientale’ – osserva Conti -, cosa che dimostra una visione italocentrica”.
Ed è su queste due ricorrenze che si articola la prima parte del dibattito fra i due storici, sostanzialmente concordi.
Le due giornate vengono presentate in contrapposizione, come se la prima fosse di “sinistra”, perché ricorda le vittime del nazifascismo, e la seconda fosse una “riscossa” della destra nazionalista per ricordare “una sorta di lutto più per quelle terre che di solidarietà verso i profughi”, come afferma Conti, che in merito della Giornata della Memoria fa notare la differenza sul modo in cui è celebrata in Francia e da noi.
“La Francia il 27 gennaio ricorda anche le sue responsabilità nella Shoah (eppure non ha promulgato leggi razziali e ha invece combattuto da subito il fascismo). Inoltre celebra anche il 16 luglio, giorno del rastrellamento degli ebrei di Parigi, la ‘raffle du Vel d’Hiv’, nel 1942. In Italia, invece, la mozione per ricordare nel Giorno della Memoria la pesante responsabilità italiana nella Shoah è stata respinta in Parlamento in modo bipartisan”. “In Italia, per una riflessione sulle leggi razziali del ’38 ci sono voluti 80 anni”, aggiunge Pezzino.
“Per la commemorazione delle vittime delle foibe” riprende Conti “si sarebbe dovuto scegliere un giorno di settembre per le foibe del ’43 o di maggio per quelle del ’45, invece si è scelto il 10 febbraio, la data del trattato di Parigi, cioè del trattato di pace della fine della seconda guerra mondiale, che la destra contestava per la perdita dei territori istriani”.
Anche il Quirinale negli ultimi due anni ha usato l’espressione erronea di “pulizia etnica:”. “Sbaglia” dice Conti “I Titini hanno ucciso gli italiani non in quanto tali, anzi tanti partigiani nell’esercito popolare di Jugoslavia erano italiani. Quell’esercito combatteva e uccideva i nemici politici: i domobranci sloveni, i cetnici serbi, gli ustascia croati e quindi anche i fascisti italiani”.
“L’istituzione della Giornata del Ricordo ha dato vita a episodi molto preoccupanti: ad esempio l’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea del Friuli Venezia Giulia, per spiegare ‘la complessa vicenda del confine orientale’, ha redatto un vademecum in due edizioni. Poiché in un passo di esso si discute il tema della “pulizia etnica”, il Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, nel 2019, ha proposto di togliere patrocinio e finanziamenti a quelle associazioni che ‘concorrono con qualunque mezzo a negare o a ridurre il dramma delle foibe e l’esodo’. La mozione ha anche minacciato ricorso contro la legge introdotta dal parlamento italiano nel 2016 per sanzionare penalmente il negazionismo nei confronti della Shoah. Ma spetta al Consiglio regionale decidere qual è la verità storica?” Si domanda Pezzino
“Nel 2021 il Consiglio regionale del Veneto ha preteso di affermare una sorta di verità di Stato fissando il numero delle vittime delle foibe e dell’esodo con numeri significa mente più alti rispetto a quelli indicati dalla ricerca storica”.
Ma non finisce qui: l’8 febbraio 2022, la Regione Puglia delibera di approvare il testo di una mozione che non si limita alla tutela della memoria ma aggiunge che Regione e giunta si impegnano “a non concedere patrocini, finanziamenti, spazi e agibilità e ad escludere dei bandi della Regione dall’assegnazione o riassegnazione di unità immobiliari pubbliche tutte le sigle e associazioni locali o nazionali che negano, giustificano, riducono o deridono il dramma delle foibe e dell’esodo”. Su 59 presenti al voto, 3 non votanti, uno contrario e 55 favorevoli. E sarebbe una regione di centro-sinistra!
12 giorni dopo è la volta della Regione Lombardia che, il 12 marzo 2022, approva “il testo della mozione numero 655 concernente le azioni regionali per la tutela della memoria, con particolare riguardo ai massacri delle foibe e all’esodo istriano, Giuliano, fiumano, e dalmata”. In essa si legge anche che il Presidente e la giunta regionale si impegnano “ad attenzionare quali sigle, associazioni, locali o nazionali, negano, giustificano, riducono o deridono il dramma delle foibe e dell’esodo; a non concedere patrocini finanziamenti spazi e agibilità di qualsiasi genere ad esse […] a sollecitare il Governo e il Parlamento ad attivarsi perché siano poste in essere tutte le azioni necessarie a permettere la revoca delle onorificenze elargite dallo Stato italiano al Maresciallo Tito, in quanto colpevoli di crimini contro l’umanità”.
Pezzino definisce queste mozioni “il più grave attacco alla ricerca storica dell’età repubblicana. Questa pericolosa deriva mina la libertà della ricerca storica e la libera espressione dei suoi risultati, con il rischio di calare una coltre di censura sul dibattito pubblico”.
E Conti osserva “La DC nel dopoguerra avrebbe potuto affrontare la questione delle foibe in funzione anticomunista, ma era consapevole che per il ‘principio giuridico di reciprocità’ essa avrebbe determinato l’apertura di processi anche per i crimini di guerra italiani e sollevato la questione dei risarcimenti di guerra. E poi avrebbero dovuto rimuovere i comandanti dell’esercito e sostituirli con chi? Con chi si era formato fra il ’43-’45 ed era stato partigiano? Impensabile! Infatti ci ritroviamo i criminali fascisti nei decenni successivi coinvolti nelle stragi e nel golpe Borgese”.
Per fortuna è stata bocciata una mozione di FdI di equiparare shoah e foibe. Ma con la prossima legislatura? Il problema dell’uso pubblico della storia si acuirà se il prossimo governo, per la prima volta, non sarà di centrodestra ma di destra-destra.
Ma torniamo alla questione della proliferazione di giornate della memoria di qualcosa.
“Basta anniversari, la storia muore di troppa memoria” già così intitolava la stampa il 24 luglio 2006, aggiungendo “l’impressione è che si sia tutti immersi in una cultura degli anniversari che ha qualcosa di malato, di esausto, quasi una sorta di rivalutazione postuma delle cronache medievali, lo specchio dell’incapacità di fare una storia diversa dal puro allineamento delle date, appiattita sulla cronologia, su un susseguirsi di eventi uno dietro l’altro, tutti senza spessore, senza un’impennata, una brusca interruzione di senso. Una storia dettata dal calendario è l’esatto contrario della conoscenza storica e l’infittirsi degli anniversari appartiene più ai percorsi della memoria pubblica che a quelli della ricerca storica, con il rischio che le loro celebrazioni ne dilatino fino all’inverosimile l’indigestione mediatica, così da favorire più la rimozione che il ricordo”.
A proposito di questa elefantiasi della memoria pubblica si citano un paio di esempi, la cui nascita ha decisamente più valore politico che storico.
Conti porta l’esempio del 9 maggio: “Giorno della memoria” dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice riconosciuto con la Legge 4 maggio 2007, n. 56. La ragione della scelta è che il 9 maggio 1978 fu trovato il corpo di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana in via Caetani a Roma. Mi piace sottolineare che quel giorno fu trovato privo di vita a Cinisi (Palermo) anche e Peppino Impastato, giornalista e attivista antimafia, del quale però il testo di legge non fa alcuna menzione. Il succitato storico osserva: “il terrorismo in Italia non nasce il 9 maggio 1978. Il primo atto della strategia della tensione fu la strage di piazza Fontana di matrice fascista, avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969. Dunque si è scelto di raccontare di un gruppo del terrorismo che attenta al cuore dello stato perché è più facile che spiegare che il terrorismo nasce dal cuore stesso dello stato”.
È la volta di Pezzino che cita l’istituzione, questo anno, della Giornata nazionale della memoria e del sacrificio alpino scegliendo come data il 26 gennaio. Scopo del provvedimento è quello di tenere vivo il ricordo della battaglia di Nikolajewka, combattuta dagli alpini il 26 gennaio del 1943, tra le truppe sovietiche, che difendevano la loro patria, e le forze residue dell’Asse che l’avevano invasa, determinando un punto cruciale della ritirata e la decimazione dell’ARMIR. Dunque celebriamo una battaglia fascista nella quale fummo “invasori, non vittime”.
A proposito di scelte “politiche” di date di commemorazioni, Chiara Nencioni cita la proposta di FdI di istituire una giornata nazionale del ricordo delle vittime del Triangolo Rosso della Morte proprio il 26 aprile, volutamente il giorno dopo della liberazione, come ricorrenza antipartigiana.
Insomma, man mano che si va avanti, dalla universalità delle date che ricordano eventi fondativi del nostro calendario civile si va a date che ricordano singoli elementi e singoli gruppi. “Ma perché lo Stato deve farlo?- si domanda Pezzino- I gruppi non possono auto-organizzarsi?” ed osserva: “osì da uso pubblico della storia si arriva a stravolgimento della storia per fini politici, che copre poi la vera ricerca storica e storiografica.
“Ma a che serve la storia?” si chiede in conclusione Conti. “Se si limitasse a ricostruire un ordine cronologico di date, eventi, nomi, non servirebbe quasi a niente. La storia serve se offre un orizzonte di senso a questi eventi.”